“Vivere o morire” è un disco autentico e bello.
Basterebbe così, andatevelo ad ascoltare.
“La fine dei vent’anni” era stato il disco d’esordio della carriera solista di Motta che aveva conquistato la critica in modo unanime, con tanto di Targa Tenco. Bel peso quindi quello di realizzare il secondo album, questa volta sotto la guida della Sugar, dopo una fama cresciuta all’improvviso, in un panorama musicale italiano che tende da una parte al rap e dall’altra alla brutta copia degli anni ’80 e ’90 con testi a dir poco ignoranti. Insomma, i presupposti per sbagliare c’erano. Ma i capelli di Motta gli coprono occhi e orecchie e lui va avanti per la sua strada. Al suo fianco Taketo Gohara, Singaglia (come consigliere) e Pacifico per creare un disco integro, sincero dove Motta riesce a raccontarsi e “di cambiare accordi non me ne importa niente” (ovviamente non è così). “Vivere o morire” è una scelta binaria e in questo concept album l’artista di Livorno sta dalla parte della vita in tutte le sue sfumature. La classica voce un po’ trascinata, svogliata, con l’accento toscano, racconta l’amore e le gioie delle prime volte in modo raffinato, su un tappeto sonoro quasi acustico ma in realtà più ricercato con cori, quartetto d’archi e il percussionista Mauro Refosco. Si distanzia dal mood solo il pezzo di apertura “Ed è quasi come essere felice” e il penultimo brano “E poi ci pensi un po’” che chiude con un’orchestrina cubana, ricordo lontano.
“Vivere o morire” spiega al mondo indie che l’impegno e la sincerità pagano, ricorda che esistono gli artisti che tra malinconia e bagliori di luce sanno farti stringere il cuore e accecarti.