Ieri siamo andate a vedere Cobain: Montage of Heck

Non solo il vivere nel passato, ma vivere con e del passato, questa è la “retromania” descritta da Reynolds e molto di questo si respira nelle sale cinematografiche dove viene proiettato il documentario su Kurt Cobain di Brett Morgen il 28 e il 29 aprile.

La figlia di Cobain, Francis Bean, e Courtney Love hanno aperto al

regista gli archivi personali nel tentativo di mettere ordine in una vita fatta di eventi caotici, gonfiati e distorti in tanti anni di mitizzazione. Andare a vedere questo film può essere la risposta ad una nuova noia, dovuta forse non alla mancanza di possibilità e stimoli, ma all’incapacità di gestire la saturazione, oppure il semplice amore di un fan che ha ascoltato “Nevermind” fin da bambino ed è pronto ad accogliere un giudizio di redenzione rispetto ad una rockstar che si è tragicamente suicidata. E poi restano le grandi domande: come può un film pretendere di dare conto di un’intera esistenza, di ripercorrere la sua indefinita successione di attimi, ore, giorni? Di pronunciare l’ultima parola sull’umana vicenda di un individuo? Mentre entriamo nella sala cinematografica c’è la speranza di sincerità e, contemporaneamente, la consapevolezza della favola/tragedia montata secondo un gusto personale.

Montage of Heck si apre con l’intervista alla sorella di Kurt che afferma che lui era un genio e che lei è contenta di non esserlo. Il ritratto che Brett Morgen disegna è quello di una persona iperattiva, ipersensibile e tremendamente insicura.

Video di Cobain bambino, la storia a cartoni animati della sua adolescenza, concerti dei primi Nirvana e le foto di ogni pagina di diario e di ogni disegno personale, con ogni pensiero manifesto o inconscio sbattute su uno schermo.

Parlano la madre di Kurt, la prima fidanzata Tracy Marander, la moglie Courtney Love, il compagno di gruppo Krist Novoselic.
Sebbene il suicidio sia solo sbrigativamente trattato con una scritta che appare sullo schermo nel finale e recita “Una settimana dopo, il 5 aprile 1994, Kurt si uccise”, è chiaro che ogni testimonianza, ogni immagine raccolgono il fardello di quel finale tragico. Colpa del divorzio dei genitori, colpa di cattive compagnie, dell’eroina, di Vanity Fair, di un quel mal di stomaco perenne, di un fuoco che bruciava dall’interno l’artista e che non c’era modo, né sincera voglia, di spegnere.

Courtney ne esce, forse, ripulita, colpevole solo di averlo amato troppo e di essere stata amata alla follia, sempre sincera, spregiudicata e, dopo tanti anni, senza alcun rispetto per la privacy. Usciamo e ci sentiamo come se il poster in camera nostra avesse preso vita, come se tutte quelle domande incazzate rivolte ad un Rebel Without a Cause trovassero dopo tanti anni un riscontro. E la risposta è che non c’è un senso a tutto.

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